Un palcoscenico in prigione. L’esperienza del regista Tedeschi al Fornelli di Bari.

 

Da venticinque anni, ogni anno, Lello Tedeschi, drammaturgo e regista barese, entra in carcere.

E più precisamente entra nell’Istituto Penale per Minorenni Fornelli di Bari, dove produce teatro con i giovani detenuti dell’istituto.

Secondo l’articolo 27 della Costituzione, il carcere dovrebbe “tendere alla rieducazione del condannato” e operare per il reinserimento nella società: un’impresa quasi impossibile. Dopo anni di lavoro sul campo anche Tedeschi non si fa più grandi illusioni, eppure tutti gli anni riparte cercando di passare attraverso un varco strettissimo, provando a fare appassionare al teatro ragazzi che in un vero teatro non hanno mai messo piede e che diventano attori senza essere mai stati spettatori.

Effettivamente è così, – ci dice – sono persone che non conoscono affatto il teatro, e tuttavia il loro essere del tutto a digiuno in qualche modo è un bene.”

In che senso?

“Provo a spiegarmi.

I giovani che vengono ai corsi che faccio all’esterno, conoscono il teatro, hanno aspettative, sovrastrutture, a volte pregiudizi sul teatro. Con loro il mio lavoro iniziale consiste nel rimuovere queste sovrastrutture per fare arrivare sulla scena l’essenziale.

I ragazzi del Fornelli invece partono “vergini”, con loro questo lavoro non è necessario.

Se in un laboratorio all’esterno chiedo a un allievo di camminare lui solitamente “recita una persona che cammina”, mentre invece in carcere i ragazzi, semplicemente “camminano”, si muovono nello spazio con tutta la loro presenza viva e sincera. Tutta la verità della loro esistenza è sulla scena, si tratta solo di organizzarla, di riconoscerli, di conoscerli, di capire quello che possono dare sia in termini scenici che emotivi.

Certo, uno spettacolo non può nascere “da” loro, non hanno né gli strumenti né l’esperienza, ma sicuramente nasce “con” loro. La responsabilità di chi guida è quella di intercettare i loro bisogni espressivi. Per me ogni volta è come riscoprire l’origine del teatro.”

Proviamo a capire come funzionano i laboratori in carcere: partiamo dal primo incontro, quando prospetti ai ragazzi la possibilità di fare teatro.

Va così: qualcuno mi chiede cosa succede in sala prove, e io rispondo semplicemente “Vieni a vedere”.

Poi ho un piccolo trucco per cominciare: il primo incontro è sempre individuale (il gruppo, se mai, verrà dopo), incontro il ragazzo direttamente sul palco. Ci sediamo in scena uno accanto all’altro e iniziamo a conversare di argomenti banali (non mi interessa sapere perchè in quel momento della loro vita si trovano in carcere).

Poi a un certo punto mi alzo e passo dal palco alla platea, il ragazzo resta da solo in scena e mentre la conversazione prosegue inizio a dargli indicazioni di regia (“spostati, alza la voce, solleva gli occhi”) e inizia l’improvvisazione. Dopo qualche incontro porto in sala persone esterne, solitamente giovani artisti in formazione e piano piano il gruppo va ad affiatarsi.

Poi si passa alla storia.

Parto con alcune possibili tracce, ma disponibile a definirle con il gruppo.

Ovviamente se dipendesse da loro sarebbero tutte Gomorre, rapine e malavita; io all’inizio abbozzo, poi riporto tutto dove penso ci siano le migliori possibilità di lavoro. Nel frattempo, però instillo in loro il piacere del teatro. Chi si è divertito rimane e così nasce la compagnia per quello spettacolo.

Di lì in poi si va in discesa e arrivano le fatidiche domande tecniche da parte loro: “Come faccio a cadere senza farmi male?”, “Come faccio a farmi sentire fin la dietro?”

Dopo tanti anni, hai capito chi sono questi ragazzi?

Sono ragazzi tra i 16 e i 23 anni (nel carcere minorile si resta al massimo fino a 25 anni) che hanno commesso reati gravi spesso recidivi.

Dal 1998 a oggi ho visto due generazioni, direi che i giovani “dentro” sono cambiati esattamente come quelli “fuori”: nel 98 i ragazzi erano legati alla criminalità organizzata, erano parte di un sistema criminale, di un “universo valoriale” (chiamiamolo così…); oggi è tutto più liquido, sono molti di più i “solitari”, ragazzi che non hanno nessuna appartenenza criminale.

Rispetto a quando ho iniziato poi, è molto aumentato l’uso di droghe e psicofarmaci, tanti hanno problemi psichiatrici anche gravi, sono aumentati gli stranieri. Questo, come è ovvio, pone anche problemi di relazione, di dialogo.

Il carcere specchio opaco della società.

Solitudine, rabbia, paure, precarietà esistenziale, mancanza di stimoli: i disagi che vediamo negli adolescenti di oggi in carcere arrivano amplificati e chiaramente visibili.

L’ambiente in cui cresci fa il suo lavoro.

I ragazzi vengono tutti da situazioni molto violente. L’ambiente ti condiziona: se cresci in un ecosistema criminale hai voglia a parlare di resilienza.

Ho conosciuto ragazzi che a soli sei anni hanno ricevuto una pistola dalla propria madre, e non sono casi rari.

Oppure ci sono ragazzi stranieri di seconda generazione che non trovano un rapporto con i genitori e con la società in cui vivono.

Qual è la situazione delle carceri minorili?

In Italia ci sono 17 carceri minorili e una popolazione carceraria di appena 350 persone.

Molti istituti hanno gravi problemi di gestione, c’è ovunque (anche a Bari) una grave carenza di organico, gli educatori sono troppo pochi e il ricambio generazionale comporta sempre una perdita di memoria storica.

Le carceri minorili sono destinate a essere chiuse, servirebbe una riflessione seria sul tema.

Torniamo al teatro, parliamo della genesi dei tuoi lavori.

Per mia attitudine non parto mai da un tema prestabilito.

Devo prima capire chi ho a disposizione: la compagnia è “mobile”, succede spesso che a qualche giorno dal debutto qualcuno del cast torni in libertà, e questa quota di imprevisto col tempo è anche diventata un elemento della nostra poetica.

A casa ho un cassetto in cui accumulo idee, però è esercitandomi con i ragazzi che trovo il tema più interessante per tutti.

La “Compagnia Sala Prove” con cui hai prodotto lo spettacolo “Il sogno di Asterione” comprende anche attori che vengono dall’esterno.

Gli attori esterni giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo del lavoro.

Il drammaturgo Caludio Meldolesi, a proposito del teatro in carcere parlava di “teatro dell’interazione sociale”, dove la relazione è paritaria tra tutte le persone coinvolte progetto teatrale. Personalmente condivido.

Per lo spettatore – parlo anche per me – assistere ai tuoi spettacoli al Fornelli è un’esperienza molto forte.

Io non posso far finta che gli spettatori vengano in un normale teatro: gli spettatori vengono in un teatro che è all’interno di un carcere e sanno che in scena ci sono dei detenuti.

Questi elementi peculiari io devo metterli in gioco: nell’ultimo “Il sogno di Asterione” (prodotto da Teatri di Bari ndr), ad esempio la metafora era abbastanza chiara.

È ispirato a un racconto di Borges: Asterione è il Minotauro, un mostro rinchiuso in un labirinto da cui non può, non vuole e non riesce a uscire.

Il testo di Borges descrive proprio la condizione in cui si trovano i ragazzi: fingere, resistere, fino a quando non accade qualcosa che possa liberarti. È una condizione fisica, emotiva, ma anche umana. Ed era questo il mio intento: fare in modo che tutti gli spettatori provassero quel sentimento. Credo che Borges sia stato l’unico che ha dato voce al Minotauro, altri hanno raccontato la storia solo dal punto di vista di Teseo.

Nel testo vi siete divertiti a giocare col ruolo di Teseo, l’eroe che deve abbattere il mostro.

È questo scambio di ruolo tra eroe e mostro che voglio portare in scena. Mi interessa mettere in discussione gli stereotipi, vorrei che gli spettatori tornino a casa con qualche dubbio in più e qualche pregiudizio in meno.

L’obiettivo è sempre cercare l’universale nel particolare, emozionare, riconoscere un po’ di bellezza, una possibile poesia.

In una parola “teatro”.

Intendiamoci, il teatro non salva la vita a nessuno, i problemi che questi ragazzi hanno non possono certo essere risolti da un laboratorio teatrale, ma di sicuro grazie al teatro avremo fatto qualche ora di carcere in meno.

Per questo progetto, ad esempio, abbiamo fatto anche cinque ore di laboratorio al giorno tra allestimento, scene, costumi e drammaturgia. Tutto tempo in meno passato in cella a rimuginare, in una convivenza forzata con sconosciuti.

Come mi dicono spesso i ragazzi: “Quando sono in sala prove non mi sento in carcere.

Parliamo dei rapporti nati in questi anni: rimane qualcosa tra te e i ragazzi quando escono? Oppure la vita li porta altrove?

L’idea che mi sono fatto è che quella che incontri in carcere è una persona diversa da quella che potrai incontrare fuori, nel suo contesto.

Questo non significa che la relazione nata in carcere non sia sincera, ma fuori quella persona che hai conosciuto non esiste più.

Anzi, più forte il rapporto che si crea dentro più questo rapporto è destabilizzante fuori; perché il teatro è sì una cosa bella, ma vissuta in un momento terribile della loro vita.

Fuori ho incontrato persone che erano tornate nell’habitat originario, ci siamo salutati calorosamente, però fuori riconosciamo simultaneamente di appartenere a mondi diversi, sono loro a dirmi “Lello non stare qui”.

Possibile che nessun rapporto sia sopravvissuto fuori?

In 25 anni sarà successo due volte che fuori mi abbiano cercato.

In un caso, con un ragazzo in particolare ho vissuto un rapporto di collaborazione artistica e di amicizia lungo otto anni, quattro dentro e altrettanti fuori, facendo anche produzioni esterne. Poi all’improvviso anche lui è scomparso, senza preavviso.

Quella del carcere è una parentesi della loro vita che vogliono mettere da parte.

È assolutamente fisiologico lasciarsi.

Ma quindi questa breve parentesi di teatro lascia qualcosa nella loro vita?

Ti rispondo con realismo: è una parentesi brevissima in vite davvero dure. Qualcosa certo rimane, ma quello che loro devono affrontare fuori è talmente grande e difficile che il nostro intervento è veramente poca roba.

Sono sempre più convinto che, la parte più fertile del mio lavoro riguarda gli altri abitanti del pianeta carcere; nei confronti dei ragazzi sento un forte sentimento di impotenza.

Come scrivere sull’acqua.

Esattamente come nella vita. Fai mille progetti, poi, all’improvviso un imprevisto e…

Però per me è molto più interessante che fare teatro in circuiti tradizionali: in carcere posso fare la ricerca che voglio per il tempo che voglio.

Hai trovato una tua dimensione.

Su quel palcoscenico sono liberi loro, ma sono libero e molto anche io.

Da loro ho imparato tanto, soprattutto ho imparato a non farmi nessuna illusione.

Ho fatto il mio primo laboratorio al Fornelli a 38 anni, oggi ne ho 63, lì dentro ho vissuto il centro della mia vita, mi porto dentro gli incontri, gli sguardi, le intese sottintese, la possibilità di comprendere le nostre contraddizioni, le nostre fragilità.

Nel mercato del teatro contemporaneo lavorare come vuoi e quanto vuoi con attori attenti e curiosi, senza impegni contrattuali, è un lusso.

Avrò qualche spettatore in meno? E cosa importa?

C’è un episodio di questi anni che ricordi spesso?

Una volta, alcuni anni fa, facevamo una replica a Cascina. Dopo lo spettacolo la produzione ci porta in un ristorante molto chic con una cucina ottima e una bistecca fiorentina da urlo. Dopo cena andiamo in un pub nei paraggi, piccolo, modesto. Vedo a un tratto uno dei ragazzi, uno di quelli che di più aveva mangiato a cena, ordinare un doppio hamburger. “Ma che fai? Non ti è bastato quello che hai mangiato al ristorante?” E lui: “Oh, Lello, chissà tra quanto tempo mi capiterà di mangiare un altro hamburger!”

Qualche anno fa ho appreso che quel ragazzo è morto in brutte circostanze; ripensando alla sua fine la sua voracità di quel giorno mi appare oggi più comprensibile.

Parliamo del futuro.

La notizia è che il nostro laboratorio diventa parte di ‘Per Aspera ad Astra’, un progetto nazionale finanziato da una serie di fondazioni che promuove attività di formazione, rieducazione e risocializzazione dei detenuti negli istituti di pena tramite il teatro. Una rete di 17 realtà italiane di teatro in carcere con capofila la “storica” Compagnia della Fortezza di Volterra. Grazie a questo finanziamento potremo dare stabilità e continuità al nostro progetto facendo in modo che tra agenti, educatori e detenuti, praticamente tutta la comunità carceraria sia occupata nella produzione dello spettacolo. Questa condivisione di obiettivi può aiutare tutto il sistema.

È importante, perché servirà a costruire un ambiente diverso. I detenuti entrano ed escono, mentre il carcere resta, con le sue forti criticità, con le sue dinamiche uniche.

Ultima domanda: ma esattamente perché lo fai?

Guarda, me lo chiedo ogni anno (ride ndr).

E però ogni anno mi rispondo che sì, vale la pena continuare, che in tutto questo c’è ancora un senso.

La verità assurda è che lì dentro alla fine sto bene, faccio teatro in libertà, in autonomia, incontrando un’umanità che conosce il teatro per la prima volta e questo rinnova costantemente il mio piacere e la mia passione.

E come se ogni volta reimparassi cos’è il teatro, ne ritrovassi l’essenza.

Ogni volta è un cominciare da zero, senza memoria del passato. Ed è bellissimo.

Luca Basso

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