L’immagine simbolo di questi mondiali di calcio è secondo me quella di Breel Embolo, il giovane attaccante della Nazionale Svizzera che segna contro il Camerun il suo primo gol ai mondiali e non esulta per rispetto al paese in cui è nato e da cui proviene la sua famiglia. Una scena mai vista in un campionato del mondo per Nazioni.
C’è il posto in cui nasci, dal quale prendi storia e cultura, la lingua madre, il titolo sul passaporto; e poi c’è il posto in cui cresci, in cui ti realizzi, in cui la tua famiglia è al sicuro. Sei legato al primo, sei grato al secondo, li ami entrambi.
Il tema dunque è questo: ma insomma, questi stranieri sono un problema o una risorsa? Siamo o non siamo invasi?
Servono o no alle nostre campagne nelle stagioni del raccolto? Servono o no alle nostre imprese locali come manodopera? Servono o non servono ad accompagnare i nostri genitori quando diventano anziani e noi non abbiamo tempo per accudirli?
E i bambini, nelle scuole dei nostri figli, sono un impiccio o piuttosto aiutano i nostri piccoli a leggere il mondo, a mettere il naso fuori dalla porta di casa?
E ancora: quando vediamo le ragazze ai bordi delle provinciali pensiamo mai a chi sono i loro “clienti”? Quando vediamo le immagini dei ghetti in cui vivono i tanti braccianti irregolari che lavorano senza contratto nei campi della nostra regione pensiamo mai al colore della pelle di chi li sfrutta?
Quante domande, che discorso lungo.
Abbiamo pensato che questo numero “natalizio” fosse quello giusto per parlare di migrazioni, di viaggi, di speranza, di disperazione, di inclusione e di integrazione.
Senza scomodare paragoni con i personaggi del presepe (che pure ospita una famiglia migrante), abbiamo pensato di usare questa occasione per raccontare, con il nostro stile, qualche storia che possa descrivere un Natale alternativo e magari accendere qualche dubbio.
Non sarà Natale, ad esempio, per le famiglie ucraine rifugiate a Rutigliano (sono ortodosse, il loro Natale sarebbe il 7 gennaio); questo dicembre speravano di poter tornare a casa, invece saranno costrette in un posto che non hanno scelto a causa di una guerra assurda e sanguinosa che sembra ancora senza fine.
B è musulmano, ma il Natale lo festeggia ugualmente. Anche lui è scappato dalla guerra; lo ha fatto undici anni fa lasciando l’Iraq. La sua meta era la Norvegia, ma il caso ha voluto che si fermasse qui in Puglia. Grazie a un progetto di accoglienza che gli ha consentito di imparare l’italiano e conoscere le regole del nostro paese, ha trovato lavoro in un’azienda del nostro territorio e in poco tempo è passato dal pulire i pavimenti di un’officina a un lavoro di grande responsabilità e oggi contribuisce in maniera importante a far crescere l’economia del nostro territorio.
C’è un viaggio anche nella storia della piccola Elisabetta, italianissima, che a soli 9 anni è partita dalla sua Capurso per studiare danza a Seattle con coetanei provenienti da ogni angolo del mondo. Un’avventura bellissima che con grande entusiasmo e una maturità sorprendente ha raccontato al nostro giornale.
Elisabetta ha avuto la possibilità di volare oltre oceano per seguire il suo sogno. La stessa opportunità dovrebbe essere data a tutti a prescindere dal paese in cui si nasce, non vi pare? Ed è stato proprio inseguendo un sogno che in tanti sono arrivati da noi.
Ho chiesto a B se pensasse ancora al suo paese. “Il mio paese è qui perché qui è la mia famiglia” mi ha detto. Vale come risposta ai nostri dubbi?
Luca Basso